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Il XIX secolo: verso la rottura di un equilibrio nella montagna corsa.

Maria Pia Rota

 

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Prima di entrare in argomento vorrei fare una precisazione a proposito del tema di questa giornata e cioè gli equilibri del passato, riferiti alla montagna ligure e còrsa. Quando si parla di "equilibrio" viene subito in mente un altro termine: "cambiamento". Una situazione di equilibrio è destinata infatti a mutare velocemente seguendo la continua evoluzione della realtà che alterna periodi di apparente staticità (o di "equilibrio"), durante i quali non si producono cambiamenti di rilievo, ad altri di rottura nei quali si possono verificare mutamenti notevoli e, a volte, morfogenesi. Evocando gli equilibri del passato a proposito della montagna si deve intendere quindi che, lungo i secoli, periodi più o meno lunghi, nei quali le sue componenti sia fisiche che antropiche (il clima, la geomorfologia, la demografia, le strutture sociali, i sistemi economici…) hanno mantenuto rapporti abbastanza stabili fra loro, si sono alternati con dei momenti di rottura che hanno comportato cambiamenti evidenti. A ben vedere, si può dire che i periodi di "equilibrio" sono stati solo la preparazione di successivi "squilibri".

Questo processo è evidente nella Corsica del XIX secolo quando, nell’apparente stabilità raggiunta con il consolidamento del passaggio dell’isola alla Francia, si sono poste le premesse per un cambiamento radicale della plurisecolare struttura socio-economica isolana. Ma questa non è certo scoperta di oggi: già Antoine Albitreccia, nel 1942, aveva intuito che "le XIX siècle a rompu un solide équilibre traditionnel et que le nouveau système économique et social mis en place n'a pas réussi à résoudre les problèmes qu'il a créés" (G. Ravis-Giordani, in A. Albitreccia, 1981, p. 5). Si tratterà ora di vedere quanto e in che modo questo cambiamento ha riguardato in maniera specifica il mondo della montagna.

Sembra superfluo in questa sede ricordare come la montagna còrsa, rispetto a quella di paesi contermini, per una serie di cause storiche fosse nel secolo scorso più fittamente popolata che non la bassa collina e le pianure. Gli abitanti, pastori che praticavano un allevamento transumante associato ad agricoltura di sussistenza e alla lavorazione del latte o della carne e a una limitata commercializzazione dei prodotti, agricoltori che univano la coltura della terra ad un modesto allevamento domestico, boscaioli che dalle estese foreste traevano legna da ardere e per fare carbone o legname per l'edilizia (queste due ultime voci alimentavano anche un certo commercio con l'esterno), si concentravano in villaggi spesso di notevoli dimensioni disseminati tra i 600 e i 1.000 metri, utilizzando poi ricoveri temporanei nei loro spostamenti stagionali verso i pascoli montani o costieri. In questo mondo arcaico, nel quale la proprietà collettiva di una parte della terra era una necessità dettata dall'organizzazione economica, la vita non era problematica come in altre contrade mediterranee, nonostante l'ambiente difficile e l'isolamento, a volte più apparente che reale.

Tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX, in tutta l'isola si innescarono alcuni cambiamenti strutturali che, pur non avendo effetto immediato, costituirono le premesse del proces-so di destrutturazione della società isolana esploso negli ultimi venti anni dell'800.

Ad un primo approccio si può dire che alcuni processi sono quelli comuni a tutto il mondo rurale europeo, altri peculiari dell'isola, ma anche i primi, intervenendo su un tessuto socio-economico del tutto particolare, ebbero effetti diversi rispetto ai paesi vicini.

1. Cento anni di incremento demografico.

Una prima considerazione riguarda il piano demografico. La seconda metà del XVIII secolo e quasi tutto il secolo successivo sono stati per la Corsica, come per la maggior parte dell’Europa occidentale, un momento di forte incremento demografico: è stato calcolato, con tutte le riserve dovute all'incertezza delle fonti, che tra il 1796 e il 1870 la popolazione isolana crebbe di oltre il 70%. Se nei primi decenni l’aumento fu assorbito abbastanza agevolmente dal tessuto socio-economico, a poco a poco esso diede l’avvio ad alcuni cambiamenti, prima impercettibili, poi sempre più palesi, nel mondo rurale, in quello urbano e in tutta la vita sociale nel suo complesso.

Anche la montagna, ovviamente, fu interessata da questo aumento della popolazione, più precoce nella Castagniccia dove si raggiunse il vertice demografico già nel 1851, e più tardo, ma anche più duraturo, nei massicci cristallini a nord del Colle di Vizzavona, dove si toccò il massimo di popolazione nel 1901, e in quelli a sud dove comunità come Levie, Serra-di-Scopamene o Zicavo crebbero fino alla vigilia della prima guerra mondiale.

L’impressione di un sovrappopolamento dell’alta e media collina, secondo Janine Renucci (J. Renucci, 1974), si ricava dalla progressiva occupazione del suolo destinato all’agricoltura che raggiunse quasi ovunque la saturazione: in Balagna o nel Capo Corso le terre coltivate arrivarono a rappresentare il 90-95%. La stessa percentuale si riscontrava nella regione di Olmeto e di Santa Lucia di Tallano nel Sud dell’isola.

Nonostante l’ampliamento dello spazio agricolo e la progressiva contrazione dell'area viticola a favore di quella coltivata a cereali, la produzione non era sufficiente e bisognava importare grano. Se a ciò si aggiungono le relazioni dei prefetti che denunciano la diffusa disoccupazione, si può sicuramente parlare di sovrappopolamento, almeno per le aree occupate da agricoltori sedentari in special modo da arboricoltori.

Al contrario nella media e alta montagna, dove l’economia si basava da secoli sul binomio allevamento-cerealicoltura, il rapporto tra la popolazione e la base di sussistenza sembrava nel complesso più equilibrato, almeno fino agli ultimi decenni del secolo. Tuttavia anche in quest’area erano visibili segni di sovrappopolamento, nell’ampliamento, anche qui, degli spazi coltivati fino ai limiti consentiti da clima e morfologia, nel diffondersi della castagnicoltura che raggiunse il suo massimo sviluppo proprio in concomitanza con il massimo demografico, nella sedentarizzazione sulla costa dei pastori del Niolu, di Bocognano, di Bastelica, di Serra-di-Scopamene e di tante altre località della montagna interna, che scesero ad occupare stabilmente i pascoli invernali (J. Renucci, 1974).

A fine secolo però e nei primi anni di quello successivo, il forte aumento della popolazione e le disastrose condizioni dell'economia nel suo complesso, costrinsero centinaia di individui ad emigrare, come nella maggior parte dei paesi europei.

È molto difficile, data la poca attendibilità dei censimenti e l'alta percentuale dei clandestini, calcolare il numero degli emigrati: si pensa però, che fino al 1900 il flusso in partenza abbia rappresentato circa l'1,5% del totale della popolazione, raggiungendo nei dieci anni successivi addirittura il 6,5% annuo.

La diaspora còrsa interessò prevalentemente la gente di città e gli agricoltori; molto meno i pastori, una categoria economicamente più solida e culturalmente meno disposta ad emigrare. Tra gli agricoltori partirono soprattutto i cerealicoltori delle aree collinari. Ma emigrarono anche i cerealicoltori della media montagna, dove pure il bilancio domestico poteva essere integrato dall'allevamento. In montagna dove i pastori rappresentavano ancora una buona percentuale della popolazione attiva, con un ragguardevole numero di capi di bestiame e con la possibilità di integrare i discreti redditi dell'allevamento con quelli derivati da una agricoltura di sussistenza (cerealicoltura e castagnicoltura), il fenomeno fu più contenuto. Non è nemmeno da sottovalutare il fatto che nelle aree montane era ancora quasi intatta la proprietà collettiva, da quella comune a più villaggi alla proprietà frazionale, il che permetteva a tutti, anche ai più poveri, di accedere all’uso della terra per scopi agricoli e pastorali. In certo modo dunque fu anche la proprietà collettiva a permettere la stabilità dell’economia nonostante l’aumento della pressione demografica.

Tuttavia, anche se all’apparenza nelle aree montane i cambiamenti non erano vistosi come in quelle collinari, questo stato di cose non era destinato a durare. E qui si passa alla seconda considerazione, che è di ordine politico: l’annessione definitiva della Corsica al regno di Francia.

Il passaggio dell'isola da uno stato vessatorio ma debole con strutture amministrative "leggere" come fu la Repubblica di Genova, al Regno di Francia noto per l'efficienza del suo apparato amministrativo e militare, caratterizzato da un potere centrale forte ma assai poco elastico, fu carico di conseguenze per le antichissime strutture socio-economiche e mentali dell'isola, evidenti proprio nella montagna che, per le condizioni morfologiche e per la sua storia, era rimasta un mondo arcaico.

2. Progetti di "mise en valeur" o tentativi di omologazione?

La prima fase dell'intervento francese nell’isola, determinata anche dall’intento di migliorare le condizioni di vita isolane, assunse due aspetti differenti ma ugualmente coercitivi: da un lato venne emessa una serie di divieti riguardanti tutti i campi, espressi mediante leggi estremamente repressive, che quasi mai furono messe in pratica, dall’altro lato si impostarono alcuni cambiamenti strutturali la cui applicazione, anche se a volte venne procrastinata per decenni, raggiungendo le strutture profonde del popolo còrso, ebbe invece conseguenze durature.

Per quanto concerne il mondo della montagna, si tentò in un primo tempo di frenare l'espansione del castagneto che, specie in alcune pievi del Nord-Est, occupava la maggior parte delle terre destinate a coltura. Si trattava di una essenza molto adatta sia dal punto di vista pedologico che da quello morfologico all'ambiente della montagna interna; proprio sul finire del Secolo dei Lumi e poi in quello seguente però, all’interno delle tante società agronomiche proliferate in questo periodo si era fatta strada la convinzione che il castagno, il cui ciclo colturale apparentemente richiede poche cure, in qualche modo soffocasse lo spirito di iniziativa dei contadini, incoraggiandone invece la "pigrizia", con il risultato di frenare la spinta al miglioramento delle loro condizioni di vita. L'equazione castagnicoltura-povertà era data per scontata. Furono emesse così parecchie ordinanze che proibivano l'introduzione del castagno in quei terreni che avrebbero potuto più proficuamente essere coltivati a grano. "On imagine le desarroi des populations insulaires - osserva Jean-Robert Pitte - ...se retrouvant sujettes d'un roi qui prétend les priver de leur seul moyen de subsistance!" (J.R. Pitte, 1986, p. 117). Tanto più che i grandi proprietari vedevano con favore un provvedimento che avrebbe liberalizzato il taglio dei castagni, fino ad allora severamente proibito dai Genovesi, per produrre legname e anche tannino. Fortunatamente, di fronte alla realtà del paese e alle tante voci di dissenso che si levavano da molte parti, i provvedimenti furono revocati e, al contrario, tutto il XIX secolo fu un periodo di forte espansione del castagno, in concomitanza con l'aumento demografico generalizzato, specialmente nel Di là da Monti (regioni di Vico, di Sartene, di Ajaccio) dove il prevalere della pastorizia e delle strutture comunitarie aveva scoraggiato nel passato questo tipo di coltura. Il fenomeno, che riguardava soprattutto l'introduzione di castagni sui terreni comunali (ma per una antica consuetudine gli alberi, anche se introdotti da privati su terreni della collettività, restavano proprietà di chi li aveva piantati), divenne così imponente da spaventare le autorità, timorose che l'espansione di questo albero potesse avvenire a spese dei cereali e, addirittura, dei boschi di leccio (F. Pomponi, 1976).

Un altro settore colpito a più riprese da interventi coercitivi fu quello dell’allevamento. Si cercò più volte di eliminare l'antichissima pratica del libero pascolo (libre parcours), il diritto cioè di far pascolare il bestiame anche fuori dei limiti della propria terra o delle terre della propria comunità, generalmente nell'ambito di una pieve o di due pievi limitrofe (le pievi erano unità a carattere religioso e amministrativo ed erano formate da più parrocchie o villaggi), su tutti i terreni sia pubblici che privati. Fu intimato ai proprietari che il bestiame dovesse essere condotto in foresta sotto la sorveglianza di uno o più pastori, lungo un solo percorso designato dagli ufficiali mentre i padroni avrebbero provveduto a "marcare i loro porci con ferro caldo...il cui originale sarà deposto alla cancelleria". Una ingiunzione che fa sorridere, pensando a quanto dovesse sembrare assurda allo spirito indipendente dei pastori còrsi (M.P. Rota, 1989). Raramente però tutte queste norme venivano messe in atto: basti pensare che tra 1800 e 1820 furono emesse ben dodici ordinanze per eliminare il libre parcours e tutte rimasero senza esito. Il che conferma che non furono certo i divieti a mutare la struttura socio-economica dell'isola.

Ben più efficaci furono invece i provvedimenti relativi all’utilizzazione delle foreste che costituivano per i Francesi la maggior ricchezza dell'isola e che quindi andavano severamente protette anche nei confronti di chi ne aveva usufruito da sempre. L'amministrazione forestale francese aveva alle spalle secoli di esperienza e intendeva metterla a frutto in questo nuovo paese divenuto francese a tutti gli effetti, ma tanto differente dal resto della nazione, disciplinando l'uso dei boschi, sia di quelli demaniali sia di quelli appartenenti alla collettività. In effetti la pressione demografica, con il conseguente allargamento dello spazio destinato all'agricoltura a spese delle aree boscate, rischiava di ridurre a poco a poco (siamo agli inizi del XIX secolo) l'area occupata dai boschi comunali. Contemporaneamente si moltiplicavano anche le iniziative di privati per l’utilizzazione del legname (produzione di carbone, legname per costruzioni o per cantieri navali...) con il pericolo che la copertura forestale potesse essere gravemente danneggiata da sovrasfruttamento. Per ovviare a questo stato di cose si seguirono due vie, la prima per costringere i comuni ad accettare che le loro proprietà boschive fossero sottomesse al cosiddetto "régime forestier" (già introdotto nelle foreste demaniali) il quale, limitando fortemente il loro uso, ne avrebbe salvaguardato l'integrità; la seconda per delineare con certezza i confini tra foreste comunali e demaniali, in modo da evitare abusi da parte delle collettività ma anche, come veniva denunciato da più parti, per ritagliare al demanio spazi forestali sempre più vasti.

Quest'ultima operazione fu senza dubbio la più difficoltosa e impopolare, anche per l'assenza di documentazione ufficiale: le foreste demaniali avrebbero dovuto corrispondere a quelli che erano stati i boschi camerali della Repubblica di Genova che in realtà non erano mai stati designati con chiarezza. I Corsi avevano sempre utilizzato con una certa libertà i boschi camerali considerando il loro un diritto acquisito e, addirittura, una vera e propria forma di proprietà.

Da parte loro i Francesi si rifacevano al capitolo 39 degli Statuti di Corsica, nel quale veniva stabilito che tutte le terre dell'Isola, "agri, gualdi (boschi), pasture e herbaggi in piaggia e in monti, non partiti per termini", sulle quali nessuno potesse provare un diritto di proprietà, dovessero essere "communi a qualsivoglia suddito immediato della Serenissima Signoria e altri abitanti dell'Isola di Corsica in terra de comune: Dichiarando che alcuna persona o comunità non possa appropiarsi le cose sudette". In base a questa formulazione i nuovi padroni sostenevano che in passato "toutes les forêts étoient de droit public et appartenaient à la Chambre, c'est à dire à la République, qui en laissait l'usage aux Communautés" (Statuti criminali e civili dell’ Isola di Corsica, 1696). Poiché i Genovesi, confinati nelle città-fortezza della costa, erano stati incapaci di vegliare alla conservazione dei boschi, specie di quelli dell'interno, "les Communautés...ainsi que des particuliers puissants, les ont usurpés sur la République de Gênes": di conseguenza "Le Roy pourra donc rentrer quand il le voudra dans la propriété de ces bois..." (Archives Nationales de Paris, K 1227, 1789).

Queste foreste "royales" (il Terrier général de Corse ne riconobbe 27 per una superficie complessiva di 33.600 ha) più tardi con la Rivoluzione divennero "nationales", poi nel periodo napoleonico "imperiales" e infine, con la Restaurazione, di nuovo "royales". La loro designazione procedeva a colpi di processi, di rivendicazioni, di boicottaggi, tanto che l'amministrazione della Monarchia di Luglio, decise che fosse realizzato un nuovo inventario delle risorse forestali che appartenevano con sicurezza allo Stato, per favorirne lo sfruttamento razionale.

Contemporaneamente, una commissione avrebbe dovuto dirimere le questioni tra lo Stato e le comunità sulla proprietà delle foreste. Una prima Délimitation générale condotta dall'agente forestale Racle, risalente al 1834, non soddisfece nessuno: le contestazioni continuavano, allargate anche ad una parte dell'opinione pubblica francese che vedeva nell'operato del Governo una vera e propria rapina ai danni dei Corsi. Dopo la parentesi della Rivoluzione del 1848, le operazioni ripresero per concludersi nel 1852 con la mediazione del Consigliere di Stato Blondel. Le cosiddette Transactions Blondel lasciarono allo Stato 47 foreste per un totale di 45.824 ha e alle comunità locali 88 foreste per un totale di 56.229 ha. Esse regolavano, oltre ai confini e alle superfici, anche i diritti d'uso che erano stati mantenuti, ma "à titre de tolérance révocable".

Le comunità della montagna si videro così private di una importante risorsa economica costituita soprattutto dal pascolo nei boschi e dalla raccolta della frasca, fogliame fresco di cui era ghiotto il bestiame, tanto è vero che, alla fine del secolo, insieme alla lievitazione del numero dei processi per "delitti forestali", si moltiplicheranno le suppliche, sempre respinte, delle comunità pastorali per avere diritto al pascolo e al libre parcours nelle foreste demaniali, da quelle di Tartagine-Melaja, alle foreste del Niolu, fino a quelle di Tritore o di Vizzavona (Archives Nationales de Paris, F 10/2388, 1890-1905).

3. Le ambigue vicende della proprietà collettiva.

Tra gli eventi che incisero sul cambiamento della vita isolana nel suo complesso, e su quella della montagna in particolare, fu anche il lento processo di riorganizzazione della proprietà fondiaria delle collettività, specialmente dell'ampia categoria delle terre appartenenti alle comunità rurali. Esse ricoprivano in Corsica un ruolo insostituibile sia per la pastorizia che per l'agricoltura ma, in seguito ad una serie di provvedimenti governativi e di cambiamenti della società, spesso si trovarono ad essere smembrate tra le comunità che ne avevano sempre usufruito collettivamente e poi, in parte, furono anche privatizzate.

Quello della Corsica non è un caso isolato: ovunque in Europa nel XVIII secolo si sentiva l'esigenza di una razionalizzazione dell'agricoltura, teorizzata nel Secolo dei Lumi e poi applicata, anche se sporadicamente, in quello successivo e sia la proprietà collettiva della terra che la sua gestione comunitaria erano ritenute estremamente negative per l'economia e per la società. Per citare alcuni esempi di Paesi vicini alla Corsica, storicamente o geograficamente, in Liguria illustri agronomi come Grimaldi o come Pini, ritenevano che una seria riforma dell'agricoltura non potesse prescindere dalla divisione delle comunaglie, sostenendo, tra l'altro, che la diffusa emigrazione stagionale della mano d’opera, comportava il loro abbandono ad uno sfruttamento di rapina (L. Bulferetti, C. Costantini, 1966). In Sardegna il progetto di abolizione della proprietà comune e della gestione collettiva delle terre rappresentato dall’Editto sopra le chiudende, era rivolto a tutelare i diritti dei grandi proprietari terrieri contro gli abusi dei pastori nelle fertili pianure e nella bassa collina, mentre in montagna la recinzione forzata delle terre, spesso di proprietà feudale, oltreché collettiva, costringeva i pastori a prendere in affitto quegli stessi terreni nei quali per secoli il pascolo era stato libero (M. Le Lannou, 1942; I. Zedda Macciò, 1997).

È pur vero che larghi strati di popolazione si opponevano alla divisione delle terre comuni ma in generale il XIX secolo "significa per le proprietà collettive un momento ‘liquidatorio’ " (P. Grossi, 1993), per lo meno nelle intenzioni. In realtà spesso la divisione delle terre delle comunità e la conseguente privatizzazione si realizzarono prevalentemente dove il loro valore economico era rilevante: in Liguria si mantenne quasi intatto il patrimonio comune della montagna interna mentre sparirono le comunaglie delle comunità costiere. Ne sono un esempio le comunaglie di Nervi: suddivise in base ad una ordinanza municipale nel 1843, dieci anni dopo erano ancora nelle mani dei "comunisti" a causa dell'opposizione dei grandi proprietari di greggi che utilizzavano la collina costiera come pascolo invernale. La prepotenza dei pastori, spalleggiati dai nobili proprietari, faceva esclamare a Jules Michelet, partigiano degli agricoltori del borgo costiero, che "la barbarie du pâturage communal est une guerre declarée du riche contre le pauvre" (J. Michelet, in T. Di Scanno, 1988, p. 140).

In Corsica le vicende della proprietà collettiva seguirono un "iter" differente e diversi furono i risultati, condizionati non soltanto dalla grande estensione e dalla multiforme tipologia delle terre comuni ma anche da cambiamenti sociali derivati dal forte aumento della popolazione e, soprattutto, dal cambiamento politico del 1768.

Quando la Francia si sostituì alla Repubblica di Genova nel governo della Corsica, la questione della proprietà della terra, specie di quella pubblica, era quanto mai ingarbugliata poiché si rifaceva al già citato capitolo 39 degli Statuti di Corsica, nel quale appunto si specificava che, fatto salvo il diritto di proprietà della Repubblica, tutti i campi, i boschi, i pascoli, sia sulla montagna che sulla costa che non fossero delimitati da confini e dei quali non potesse essere certificata una qualsiasi forma di appartenenza a privati, dovessero essere considerati proprietà di tutti i cittadini còrsi e genovesi. La formulazione nel suo complesso si prestava però ad alimentare l'ambiguità di fondo tra proprietà del suolo e diritto d'uso che caratterizzava il diritto tradizionale còrso nel suo complesso e che derivava dai caratteri peculiari del sistema socio-economico isolano. Si veda il caso concreto del libre parcours. In base a questa consuetudine un ampio territorio (u pasculu), costituito sia dai pascoli estivi e invernali, sia dai percorsi stessi della transumanza, era riservato all'allevamento, e i pastori consideravano un sopruso qualsiasi tentativo di limitare le aree del pascolo, magari mediante recinzioni, confondendo appunto il diritto d'uso con la proprietà della terra.

In questa sede però, più che le terre demaniali, interessano le vicende delle proprietà collettive delle comunità rurali che, al tempo del passaggio della Corsica alla Francia, costituivano il 34% della superficie isolana. La loro origine, un tempo ritenuta molto antica, è probabilmente da collocare, per il Di là da Monti o Terra di Signori, al momento della spartizione fra le comunità dei beni feudali e cioè nel XVI secolo, mentre per il Di qua da Monti o Terra di Comune il processo andrebbe anticipato di due secoli.

La loro tipologia era varia e complessa, pur essendo tutte espressione del bisogno di ciascuna comunità di sovvenire alle proprie necessità fondamentali. Semplificando e sintetizzando situazioni spesso molto specifiche, si possono individuare alcune categorie fondamentali: poteva trattarsi di territori indivisi fra due o più pievi e allora essi erano in genere rappresentati da boschi, foreste, pascoli quasi sempre collocati in aree montuose o, al contrario, in prossimità della costa. Qualche esempio: i pascoli che si stendevano ai piedi del Monte Renoso erano indivisi tra i pastori di Ghisoni e di Vivario nel Di qua Da Monti e quelli di Bastelica e di Bocognano nel Di là da Monti; la Montagna di Cagna apparteneva in egual misura alle comunità di Sorbollano, di Serra-di-Scopamene e di Levie mentre la parte terminale della Valle del Taravo era indivisa tra le pievi di Ornano e di Talavo. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Queste terre collettive, per l'uso delle quali era generalizzato il principio di gratuità, interessavano infatti la pastorizia a lungo raggio, poiché costituivano l'area di pascolo invernale (se poste sulla costa) o estivo (se in montagna) delle comunità pastorali. Non mancano però esempi di aree cerealicole indivise fra più pievi: è il caso delle terre di Alistrella che ogni anno venivano divise in tre lotti uguali e assegnate alla tre pievi di Nonza, Barettali e Farinole, nel Capo Corso. Ma più spesso le risorse di questo tipo di terre collettive erano molteplici, come nel caso della Serra di Popa, appartenente alle pievi di Caccia, Lento, Rostino, Sorio e San Quilico. Qui gli abitanti delle cinque pievi potevano "pascolar, tanto de herbe como de jande per loro porci" e trovarvi " terre per lavorar (campi), lignami per far le lor case et altri bisogni" (P. Lamotte, 1954, p. 49)

Vi era anche il caso di terreni appartenenti a più comunità comprese nei limiti della stessa pieve, ma le più diffuse erano le terre indivise appartenenti ad ogni singola comunità, i cui membri potevano usufruirne liberamente ma all’interno di precise regole di gestione collettiva soprattutto per quanto concerneva l'agricoltura. In particolare era soggetta a regolamentazioni di vario tipo la coltura dei cereali nelle prese, che erano porzioni del territorio comune, in genere abbastanza lontane dal villaggio, spesso recintate e sorvegliate per difendere i coltivi dal bestiame (ogni comunità in genere possedeva più di una presa), e nel circolo, un'area in genere più vicina al villaggio e riservata alla coltura della vite e degli alberi da frutta; l’uso dei pascoli e delle foreste invece (foresto o reghjone), non poneva in genere problemi in quanto tutta la comunità poteva usufruirne liberamente senza spartizioni preventive (P. Lamotte, 1956). In realtà, in Corsica come in tutta l'area mediterranea, i meccanismi elaborati per l'assegnazione periodica delle terre riguardavano soprattutto le aree collinari o di pianura dove la coltura era più redditizia. In montagna, dove non mancavano gli spazi, ma dove il lavoro dell'agricoltore era difficile e di poca resa, esisteva maggior libertà nella loro utilizzazione.

Specie nelle comunità pastorali le prese potevano essere situate anche in aree molto lontane dai villaggi, nell’alta montagna (a muntagna) o vicino al litorale (la piaghia) dove i pastori si spostavano stagionalmente e dove potevano praticare una magra agricoltura di sussistenza. Anche per questa ragione spesso parte del circolo apparteneva alla comunità di villaggio costituendo addirittura "le territoire communal proprement dit" (J. Defranceschi, 1978, p. 79) mentre le aree cerealicole e il foresto potevano essere proprietà indivisa tra più villaggi della stessa pieve o tra pievi diverse.

Le terre collettive a volte corrispondevano a beni frazionali: anche per questo tipo di proprietà si era ipotizzata una origine molto antica, poiché si riferiva a comunità formatesi in genere per accorpamento di vari villaggi, come ad esempio Bastelica o Serra-di-Scopamene. Ricerche più approfondite hanno dimostrato invece che esse derivano da una divisione abbastanza tarda di beni appartenenti a comunità differenti (F. Pomponi, 1975).

A volte tutti questi tipi di proprietà potevano coesistere all'interno della stessa comunità, insieme ai consorzi familiari e alla proprietà privata che, non dimentichiamolo, in Corsica alla fine del '700, rappresentava più del 50% della proprietà fondiaria. In ogni caso su tutte le terre collettive prevaleva il principio di gratuità, in base al quale i membri della comunità, pastori e agricoltori potevano usufruirne sia per il pascolo che per scopi agricoli, senza pagare alcuna tassa. Per tale ragione molto spesso succedeva che i beni comunitari non fossero percepiti come proprietà della comunità in quanto persona giuridica, ma le terre e i diritti collettivi erano considerati proprietà di ciascun membro della comunità, il che complicherà notevolmente le cose al momento dell'intervento dell'amministrazione francese in questo campo (F. Pomponi, 1975).

4. Fattori di destrutturazione delle terre comunitarie.

L'annessione alla Francia aveva comportato, logicamente, un cambiamento nell'organizzazione amministrativa delle comunità còrse tradizionali che vennero ristrutturate su modello dei municipi francesi. In questo quadro si inseriscono anche iniziative di miglioramento nel campo delle opere pubbliche. Ma se in passato si provvedeva alla loro realizzazione con il contributo volontario degli abitanti (in denaro o più spesso in mano d'opera), con la nuova sistemazione mutarono i meccanismi del finanziamento, al quale doveva sopperire ora la "cassa municipale", un organismo di nuova istituzione alimentato con i proventi derivati dalla razionale utilizzazione dei beni collettivi, che erano rappresentati quasi interamente dalla terra. Questo nuovo metodo di autofinanziamento si diffuse soprattutto a partire dai primi decenni del XIX secolo quando l'aumento della popolazione e il generale innalzamento del tenore di vita resero necessaria la realizzazione di opere pubbliche di un certo rilievo (fontane, strade, cimiteri, chiese, scuole, acquedotti...). Il forte aumento della fiscalità ripropose infatti un "razionale" sfruttamento dei beni comunali sia mediante l'affitto di terreni a terzi (una pratica che qualche volta era stata impiegata anche nel passato) sia mediante la tassazione diretta di coloro che, appartenendo alla comunità, ne usufruivano in vario modo. Spariva così, dopo secoli, il principio di gratuità.

A questo punto era interesse dei comuni procedere alla suddivisione della proprietà collettiva per pagare le tasse solo su ciò di cui realmente si usufruiva. Si rafforzò così l'esigenza di stabilire dei limiti precisi all’interno delle terre appartenenti a più pievi o a più comunità della stessa pieve, spesso con il tentativo della comunità più forte di escludere le altre o di far loro pagare un affitto. Sulle terre comunali la diffusione della pratica dell'affitto a terzi e comunque l’obbligo per i privati del pagamento di una tassa per l'utilizzazione della terra stimolò la suddivisione e poi la privatizzazione della proprietà collettiva. Questo processo del resto, era visto di buon occhio dallo stato perché si pensava che la rotazione della terra fra più proprietari non impegnasse a sufficienza i conduttori ad aumentarne la produttività. Nello stesso tempo si riteneva che i terreni collettivi fossero causa di gravi disordini sia tra le varie comunità che all'interno di un comune: c'era chi sosteneva infatti che la pratica dell'affitto fosse alla radice di favoritismi e corruzione, favorendo anche il malcostume politico (P. Bourde, 1887).

Tra i tanti casi di suddivisione di terreni comunitari è emblematico quello delle due comunità di Evisa e di Ota che godevano di terre indivise situate nella bassa valle del Porto. In seguito a liti e contestazioni tra gli abitanti dei due villaggi, i beni comuni furono spartiti e, contestualmente, all'interno del comune di Ota (siamo attorno al 1830) si diffuse la proprietà privata soprattutto in quei terreni posti lungo il fiume, fertili, facilmente irrigabili e vicini al villaggio, mentre restava indivisa fra gli abitanti la montagna, lontana e improduttiva se non per il taglio del bosco e per il pascolo (M. V. Bevilacqua, 1968). Le vicende della bassa valle del Porto riportano alle considerazioni, di carattere generale, di J. F. Dobremez (J. F. Dobremez, in G. Ravis-Giordani, 1983, p. 289) a proposito della privatizzazione della terra. Una pratica che prevale in quegli ambienti ecologici chiusi, a forte produttività, e cioè praticamente "toutes les terres cultivées du monde entier ou l'homme protège son investissement en main d'oeuvre par le biais de la propriété", mentre resta terra comunitaria a disposizione del gregge errante la foresta rada, troppo difficile da coltivare.

In realtà la spartizione delle terre incontrò molte resistenze anche da parte delle autorità locali: si temeva per i più poveri che non avrebbero avuto terre da coltivare ma anche i ricchi proprietari di greggi si opponevano (come si è visto pure nel caso di Nervi) perché non avrebbero più potuto utilizzare il compascuo, mentre i pastori erano contrari perché, con il moltiplicarsi delle recinzioni, si era ridotta di molto l'area del pascolo.

Inoltre, poiché come si è detto, si riteneva generalmente che le terre collettive appartenessero non tanto alla comunità stessa quanto ai suoi membri, si ingenerò ovunque una forte ostilità verso gli stranieri che volevano acquistare beni pubblici: l’acquisto di terre da parte di chi non faceva parte della comunità era considerato un sopruso. Gli archivi della Balagna registrarono le violente proteste degli abitanti di Calenzana, dove le terre comuni rappresentavano i due terzi del totale, contro un certo Antonio Parodi (curiosamente definito "antico emigrato inglese") che esercitava una sorta di accaparramento delle terre coltivabili come pure contro il principe Pierre Bonaparte che si era fatto avanti per acquistare un ingente lotto di terreni pubblici al Luzzipeo (J.C. Leca, 1978).

Bisognava poi fare i conti anche con gli "usurpatori" che si appropriavano dei terreni senza comperarli, spesso con la violenza. Essi furono alla base di tensioni e conflitti sociali che in molti casi durano ancora oggi.

Contro la suddivisione delle terre pubbliche giocavano anche considerazioni di tipo "tecnico": a Carbuccia la costruzione di muretti a secco per cintare gli appezzamenti che, adattandosi alla morfologia del terreno, avevano una conformazione stretta e allungata avrebbe avuto un costo superiore al valore della terra. Lo stesso problema, all'incirca negli stessi anni, veniva dibattuto in Sardegna dove, anche per questo motivo, si riteneva che una rigida applicazione dell'Editto sopra le chiudende, avrebbe significato per i piccoli proprietari un impegno finanziario troppo pesante (I. Zedda Macciò, 1997).

La spartizione delle terre collettive che, bisogna ricordarlo, anche in Corsica non raggiunse mai percentuali notevoli, va collocata però nel contesto di un altro fenomeno in atto nel XIX secolo e cioè il progressivo distacco dal comune originario di molte comunità pastorali che si stanziarono definitivamente nelle sedi del pascolo invernale situate sulla costa o immediatamente al suo interno. A poco a poco i piccoli nuclei formati dai ricoveri stagionali si erano ingranditi e la loro economia si era trasformata da prevalentemente pastorale a prevalentemente agricola. Era naturale che il passo successivo fosse la richiesta di autonomia amministrativa rispetto a sedi comunali distanti a volte decine di chilometri e difficilmente raggiungibili per la mancanza di collegamenti stradali. Sorgeva però il problema delle terre comunitarie. A chi sarebbero spettate? Ai nuovi comuni costieri o alle comunità di origine? E i nuovi comuni avrebbero conservato i loro diritti sui pascoli comunitari della montagna? Vediamo un caso concreto: i pastori del Niolu che da tempo immemorabile scendevano con le loro bestie a svernare nel Filosorma e nella piana di Galeria, spinti dalla pressione demografica e quindi dalla necessità di trovare nuove terre da coltivare, occuparono stabilmente i pascoli comunitari e, in un secondo tempo, riuscirono a conquistare autonomia amministrativa con la creazione delle due nuove unità comunali di Manso e di Galeria. Ma, mentre le nuove comunità perdevano i loro diritti sulla muntagna, i comuni originari di Albertacce, Calacuccia, Casamaccioli, Corscia e Lozzi, situati nella conca del Niolu, mantennero invece i loro sui terreni della piaghia. Questo fatto nel Filosorma si risolse in un primo tempo abbastanza agevolmente perché gli abitanti della costa non avevano più la necessità di praticare un allevamento transumante a lungo raggio. Oggi, però, nel quadro di uno sviluppo turistico del Golfo di Galeria, più paventato che desiderato per i suoi effetti negativi sull'ambiente, i due comuni di Manso e Galeria per un ampia parte del territorio comunale devono sottostare alle decisioni di chi non fa più parte della comunità locale oramai da più di un secolo (e cioè le comunità del Niolu, proprietarie degli antichi pascoli invernali) (B. Geoffray, 1982).

Se il protrarsi del soggiorno sulla costa impediva ai pastori di raggiungere in estate i pascoli dell'alta montagna, non per questo essi potevano rinunciare all'allevamento e ad un tipo di allevamento che prevedesse uno spostamento anche a breve raggio nei luoghi in cui il bestiame avrebbe potuto trovare erba fresca quando, in estate, la vegetazione delle aree costiere era bruciata dal caldo. Si dovettero così individuare aree di media altitudine per i pascoli estivi: i pastori di Figari e di Monaccia originari i primi della comunità di Aullène e i secondi di quella di Levie, rinunciando a raggiungere l'altopiano del Coscione che costituiva l'area del pascolo montano delle due comunità originarie, si indirizzarono alla Montagna di Cagna mentre quelli di Porto-Vecchio raggiungevano la foresta dell'Ospedale. Malauguratamente in questa fascia di media altitudine erano spesso situate le foreste demaniali cosicché la nuova transumanza diretta incontrò la forte ostilità dell'amministrazione forestale, preoccupata per la salvaguardia dei boschi sia demaniali che comunali.

Fu trovato un compromesso quando i forestali permisero la costruzione nelle foreste di alcuni insediamenti temporanei, veri e propri villaggi, nei quali i pastori avrebbero dovuto vivere concentrati e, svolgendo il proprio lavoro, avrebbero potuto esercitare una certa sorveglianza contro gli incendi. Nel XIX secolo nacquero Cartalavone nella foresta dell'Ospedale, Giannuccio fondata dagli abitanti di Monaccia e Naseo da quelli di Figari nella Montagna di Cagna, Bavella nella foresta omonima. Le contestazioni tra Stato e comuni che si disputavano il possesso delle aree forestali erano molto frequenti e ancora oggi la conflittualità a questo proposito è abbastanza alta.

5. Qualche riflessione conclusiva.

Nell'arco di cento anni dunque la montagna còrsa fu investita da due imponenti fenomeni demografici di segno opposto: una forte e costante crescita della popolazione fino a fine secolo e oltre mentre nell'ultimo scorcio dell'Ottocento iniziava una forte emigrazione che riguardò specialmente le medie altitudini ma anche le quote maggiori. Emigrazione dalla montagna si può infatti considerare anche la sedentarizzazione dei pastori sulla costa con la conseguente formazione di diverse sedi e di nuove unità amministrative.

Contemporaneamente, si fecero sentire i provvedimenti assunti dallo stato francese nei confronti del nuovo territorio annesso. Al pesante intervento sulla delimitazione e sulla gestione delle foreste fece da contrappunto la preoccupazione per il potenziamento della rete stradale e delle opere pubbliche in genere nonché quella di una generale "mise en valeur" i cui risultati peraltro furono largamente deficitari (M. Castellani, 1994). L'incremento demografico e il miglioramento delle condizioni di vita richiesero un maggiore impegno nel campo delle opere pubbliche, la cui realizzazione però fu finanziata quasi completamente dalle comunità locali mediante l'alienazione parziale delle terre collettive, con una conseguente privatizzazione di quelle più propizie all'agricoltura.

Questo processo colpì più duramente il mondo contadino che non quello della pastorizia. Poiché la suddivisione delle terre comuni era il primo passo verso la privatizzazione (a fine secolo i lotti venivano decisamente venduti senza alcuna forma intermedia di passaggio) gli agricoltori più poveri si videro infatti esclusi dal circuito economico mentre la parcellizzazione e la polverizzazione delle terre non permetteva più il sostentamento di una famiglia, cosicché i più deboli andarono ad alimentare la massa degli emigrati. I pastori viceversa, che costituivano in tutta l'isola il 40% della popolazione, pur costretti a rinunciare al libre parcours, alla vaine pature (vago pascolo) e, in molti casi, ma per loro scelta, alla transumanza a lungo raggio, riuscirono ad utilizzare per il bestiame le terre abbandonate dagli agricoltori, anche se con modalità e tempi diversi da quelli tradizionali.

Le conseguenze di tutti questi eventi (e dei tanti altri che non si sono potuti evocare) che hanno riguardato il mondo della montagna còrsa si possono leggere oggi a diversi livelli. Nell'abbandono quasi totale delle pratiche agricole mentre permane ancora l'allevamento, sia nelle forme tradizionali sia in forme più moderne. Nel paesaggio agrario, pesantemente destrutturato e oggi praticamente illeggibile se non attraverso segni spesso di difficile interpretazione come le tracce delle recinzioni di antiche prese o di chiosi abbandonati. Nel paesaggio forestale che, confrontato con quello di altre regioni mediterranee, si presenta particolarmente rigoglioso, proprio a causa di quegli interventi coercitivi di cui si è detto che peraltro, quando furono applicati, assunsero una valenza negativa nei confronti di pastori e paesani, contribuendo ad innescare il processo di abbandono progressivo dell'economia tradizionale. Nella struttura complessiva dell'habitat che ha registrato la nascita di nuovi villaggi di pastori nelle foreste a fronte dell'abbandono progressivo dei tradizionali villaggi agricoli. Nella disgregazione del tessuto sociale a livello di comunità di villaggio causata in buona parte dallo spopolamento e dalla crisi di economia di sussistenza. Tuttavia, ancora oggi, le strutture mentali, anche quelle di chi da tempo ha lasciato il villaggio, registrano il senso di appartenenza dell'individuo a un determinato gruppo con tutti i suoi diritti sulle terre della collettività, a dimostrazione di quanto la lunga permanenza degli usi comunitari legati alla gestione dei beni collettivi sia stata, in Corsica forse più che altrove, un insostituibile strumento di coesione sociale.

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